L'ultimo complotto
"Mi devo nutrire della grandezza e sprofondare in essa. La grandezza è importante, pensai."
L'ULTIMO
COMPLOTTO
Romanzo d'appendice
Di Walter Amirante
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Gli avvenimenti da me narrati in questo romanzo non sono immaginari.
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I
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Fisso ormai da ore la tela: la luminosità dell'imprimatura bruno-rossastra cattura la mia attenzione. Non ho ancora trasferito il disegno preparatorio e le pareti dello studio sono impregnate dal forte odore dell'olio di lino. Se solo potessi fare a meno di tutto questo, penso senza crederci.
Sapendo che forse non comincerò mai questo dipinto, prendo uno straccio e lo intingo nel sangue di drago, nel giallo ocra e nel blu oltremare. Prendo la mira, lo scaravento sulla tela e mi rimetto a sedere. Nella macchia colorata intrvavedo varie invenzioni, teste di uomini, animali, battaglie, mari, boschi e infinite altre cose.
Io cerco e voglio il vero, penso.
Io accetto la mia natura, senza scappare. Prendere sul serio il reale significa per me riconoscere ciò che si è veramente, come individui, come specie. Disprezzo l'arte come forma di falso abbandono, di misticismo ritardato, di negazione, di esaltazione del debole – frutto del cristianesimo platonico.
Disprezzo il suo contrario, l'arte cioè come affermazione della volontà, del dionisiaco cieco e irrazionale, le vedo come forme alienanti e grottesche. Voglio il reale, penetrare nell'abbondanza, chiamare le cose con il loro nome: il debole è debole; il forte è forte.
Ho fatto mia la lezione di Courbet, ma portata fino alle più estreme conseguenze.
Anche chi gioca con le parole è da me disprezzato, come certi pseudo-filosofi che scrivono:
LA VERA IDENTITÀ È NELLO SCONFINAMENTO.
Per me credere nell'umanità non è un pensiero nobile; lo è piuttosto quello di considerarsi soltanto un tassello nella catena della natura, un essere tra gli esseri, un impulso fra impulsi.
La vita non è un'eccezione, è l'attività stessa dell'universo in continua riproposizione.
Continuo a guardare la tela e comincio a visualizzare un ricordo.
Roma.
Il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso era a due passi dal Lungotevere vaticano.
Il cardinale lussemburghese Jacques Hengen adorava – e questo lo avrei saputo poi - passeggiare al mattino presto mentre recitava sottovoce il rosario. Era scortato da due giovani sacerdoti. Prima di arrivare a Piazza della Rovere videro nei pressi del Gesù Mendicante un ragazzo a terra.
« È nudo, » bisbigliò uno dei due sacerdoti.
Il cardinale cercò di capire se avesse bisogno d'aiuto.
« Dorme, » disse lui. Si guardò poi attorno e vide accanto al ragazzo una borsa da cui fuoriuscivano dei fogli. Era aperta e il cardinale si sentì autorizzato a rovistare fra la roba. C'erano delle medicine, un dizionario di latino, un caricatore del cellulare e dei pezzi di carboncino.
I fogli contenevano i miei appunti: impegni, citazioni, schizzi anatomici. Ed Hengen rimase soprattutto impressionato dai disegni.
« Regardez, il a une bonne main, » avrebbe detto.
Alzò lo sguardo verso i primi raggi solari che filtravano tra gli alberi. L'aria fresca tipica del mattino gli carezzò il volto. Provò un brivido e arricciò il naso e sembrava contento.
Il cardinale mi portò con sé a Palazzo San Carlo e mi vestì. Al terzo piano era situato un sottoscala la cui porticina ridava su di un corridoio stretto e lungo. Su tutto il lato sinistro c'era una folta biblioteca, mentre sulla destra quattro stanze. L'ultima stanza era chiusa a chiave.
Ricordo che quella mattina apersi gli occhi, svegliato dal rumore di una palla da basket che proveniva dal cortile. La tipica fragranza primaverile mi dava fastidio e mi diressi quindi verso la finestra, per chiuderla. Il braccio sfiorò il lavandino posto accanto e con acqua ghiacciata bagnai il mio viso.
Un vecchio panno di tessuto, forse lì da anni, lo scotolatai e lo utilizzai alla buona per asciugarmi. Ripulii anche lo specchio e mi rividi per la prima volta dopo mesi: la capigliatura sgualcita, d'un intenso mallo di noce come le pupille; lineamenti nobili nonostante avessi ventinove anni. La cucina era al quarto piano ed era semplice.
« A pranzo abbiamo la cuoca. La sera apri il frigo e quello che c'è mangi, » mi disse il cardinale sorridendo. Io lo osservavo attentamente e non dicevo nulla: studiavo il soggetto.
« Écoute, » debuttò lui con pragmaticità, « di quanto hai bisogno per fare le tue cose? » Ed io esitai.
« Caro amico, questa non è carità. »
Il cardinale infatti aveva una sua personale teoria riguardo al bene: lui lo viveva come un risarcimento per tutti i crimini commessi dalla Chiesa nel corso della storia e di cui nessuno mai pagò i danni.
« Ho basato la mia vita su questo principio di giustizia, » diceva sempre col sorriso.
« Non devi sentirti offeso, » puntualizzò l'alto prelato. Al che risposi : « Non ho bisogno dei vostri soldi. Mi procuri le committenze e al resto penso io. » Egli annuì e parve soddisfatto. Da quel momento in poi ebbi la possibilità di approfondire la pittura a Napoli e di girovagare per i musei di tutta Europa: Parigi, Francoforte, Amsterdam, Malaga, Anversa, Londra e tante altre cose.
Per me il Rinascimento non era soltanto un momento storico, ma un modo di vivere e di stare al mondo.
Una mattina feci la valigia e mi diressi alla Fontana del Nettuno perché avevo appuntamento col cardinale. Partimmo alla volta di Bruxelles e il motivo di tale viaggio mi era sconosciuto.
« Io parto prima, con un volo privato. »
Nel dirlo mi diede una pacca sulla gamba e guardò fuori dal finestrino.
Vide molti turisti e mi disse che ciò gli ricordava il suo primo giorno a Roma, quando venne ad insegnare diritto canonico alla Gregoriana. Mentre parlava alzava ripetutamente la spalla sinistra, a mo di tic.
« Atterri a Zaventem e al gate ci sarà una ragazza ad aspettarti. »
« Chi è? »
« Si chiama Stéphanie Cornerotte. »
Chiusi per un momento gli occhi ma il suono di una sirena mi ridestò.
« Per quanto tempo saremo fuori? »
« Le temps qu'il faut. »
« Ho pensato, » continuò il cardinale, « che dopo questo impegno torniamo in Olanda. Che te ne pare? È bella l'Olanda. »
Nessuno di noi due osava indagare sul passato dell'altro e fu questo il segreto del nostro rapporto. L'Olanda era per me il sogno. Io amavo tutto di quel paese, la luce, il paesaggio, la storia, l'arte, ma non il cibo, che non era buono.
Il Rijskmuseum è il museo più bello del mondo, pensavo.
Era una giornata grigia di dicembre e il freddo romano penetrava le ossa.
« Bien! » disse il cardinale mentre con una mano reggeva il saturno e con l'altra la ventiquattrore : « A stasera! »
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II
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Il cielo belga era limpidissimo quel giorno e io avevo fra le mani una copia del De bello gallico di Giulio Cesare ed ero inquieto. Avrei voluto visitare i luoghi in cui visse Ambiorix, nella foresta delle Ardenne e al di là del fiume Sabis. Devo andarci per forza, pensai. Mi devo nutrire della grandezza e sprofondare in essa. La grandezza è importante, pensai.
Dopo aver ritirato il bagaglio mi diressi verso l'uscita e mi guardai attorno. Vidi una ragazza vestita di nero con un foulard verde smeraldo che salutava e reggeva un cartello con sopra scritto:
SEBASTIANO ROSA
PITTORE
Io alzai il braccio come ad accennare di aver capito e le andai incontro.
« Bienvenue! »
« Eccoci. »
Nel frattempo l'autista prendeva la valigia e ci indicava la direzione dov'era parcheggiata l'auto e imprecava.
« Come va? »
« C'è il sole. È andato bene il viaggio? »
« Sì, molto. Ma parli italiano? » chiesi.
« Ho vissuto cinque mesi a Milano all'Erasmus. »
« Cinque mesi? Parli bene. »
« Bien, » disse la ragazza inclinando un po' la testa, « io mi chiamo Stéphanie. »
Aveva gli occhi grandi e dello stesso colore del foulard. I capelli erano scuri e aveva un piccolo neo sulla guancia. La ragazza si mise poi a braccia conserte e con la mano sinistra in risalto e mi fissava.
« Il faut aller, » suggerì l'autista.
Una volta in macchina la ragazza si tolse il cappotto e prese dalla sua borsa un cellulare e poi il rossetto.
« Conosco tutto di te, della tua opera, » disse lei.
« Di che cosa ti occupi? » chiesi io.
« Lavoro in Commissione. Sono avvocato. »
Alzai di poco la testa e continuai ad ascoltarla.
« Sai perché sei qui? » disse lei.
« Sinceramente no, » risposi io.
« Ma il cardinale non ti ha detto nulla? »
« Lui parla poco, » dissi io sorridendo. La rigidità della ragazza venne meno e inclinò di nuovo la testa. Secondo me ha trentacinque anni, pensai. Ma posso anche sbagliarmi. Non posso sapere tutto.
La ragazza aveva un appartamento in rue Keyenveld, la stessa via in cui nacque Audrey Hepburn o almeno così mi disse. La sua era una stimata famiglia di avvocati che si occupava di finanza. Viaggiavano spesso in casa per motivi di lavoro o per svago e lei ereditò questa passione. Les chiens ne font pas des chats, come dicono alla Francia.
« È bello viaggiare, ma è anche molto bello tornare a casa, » mi aveva detto la ragazza. È cresciuta bene, pensai. Ma se hai famiglia e sei italiano non viaggerai mai.
La ragazza aveva lavorato nello staff del partito socialista come responsabile della comunicazione, poi grazie ad un amico entrò a far parte di una equipe che si occupava di negoziati internazionali per conto dell'Unione Europea.
« Siamo quasi arrivati, » mi disse mentre percorrevamo la Avenue Louise.
« Sono 70, » disse l'autista.
« No, 50. Pago sempre 50, » disse Stéphanie.
« Senta, mi avete fatto girare a vuoto dandomi l'indirizzo sbagliato. »
« No, Lei l'ha fatto apposta a girare a vuoto. Prenda i 50 e non faccia storie, » disse Stéphanie prendendo la mia valigia e andando via. Mi lasciò solo con l'autista inferocito che, credendo stessimo insieme, mi disse: « Tu adesso mi dai 20 euro. Devi lasciarla quella pazza. Ora a me i 20 euro chi me li dà? Io vi denuncio. » Io mi allontanai alzando le spalle. Il tassì andò via sgommando e a tutta velocità.
Il quartiere aveva un'architettura beaux-arts e lì, dietro l'angolo, vedevo l'immenso e storico Palazzo di Giustizia.
L'ascensore era degli anni '50 perché lo lessi nella targhetta in cabina e scricchiolava e aveva la moquette spelacchiata. Dentro la cabina stavo attaccato alla ragazza e studiavo il suo volto. Aveva un bel naso all'in sù e le labbra erano come confetti. La pelle era una neve purissima e a me piaceva.
Si creò non poco imbarazzo quando cercammo di uscire nello stesso momento, sfiorando l'uno il volto dell'altro e potei assaporare il suo fresco profumo.
« Di solito mi tolgo le mutandine dopo un bicchiere di vino, » disse lei.
« Lo ha detto davvero? » pensai io.
Quella battuta mi accese la fantasia e mi sentii a tratti euforico ma mi calmai. Non fare il classico animale, pensai. Sii gentile. Entra in casa e fa finta di niente. Sii un galantuomo.
Un intenso odore di eucalipto permeava l'ambiente e la luce era soffusa e si stava bene. Sul tavolo degli scatoloni suggerivano i preparativi per il Natale. Se non ci fosse il Natale io non vorrei vivere, pensai. Accanto alla porta un paio di ballerine consunte davano accoglienza.
« Sì, faccio danza, » disse lei.
« Classica? »
« Sì ma è solo un hobby. »
« Ottimo. Non c'è problema. »
Vidi una libreria e sbirciai e presi in mano una monografia del pittore spagnolo Jusepe de Ribera che sfogliai con forte interesse. La ragazza andò in bagno e al suo ritorno ci sistemammo sul divano e mi guardavo attorno.
È proprio bella, pensai.
Il ticchettio sulle finestre ci suggerì che un temporale stava arrivando e s'era fatto buio. Un caminetto virtuale creava atmosfera e lei aprì per l'occasione un Vin rouge de France e mi disse che veniva dalla sua cantina. La bottiglia venne prima travasata nel decanter, poi servita in due calici di cristallo lucenti.
Nel silenzio lo scroscio del vino versato risuonò per tutta la stanza. Avevo l'impressione di assistere ad un rituale sacro. Ogni attimo era liturgia e seguì un ulteriore imbarazzo tra noi due. Un leggero sospiro, preludio alla parola, fu interrotto dal gesto del brindisi e da parole di circostanza.
La scollatura della ragazza metteva in risalto la pelle arrossata, sulla zona della clavicola, causata forse dalla bevanda o dallo sbalzo di temperatura. Un ciondolo d'argento, con una pietra triangolare color nero avorio, percorreva lo sterno. Ci guardammo avidamente negli occhi senza dire nulla e continuammo a bere.
Presi coraggio, posai il calice e nel farlo cercai di avvicinarmi a lei (che, credo, avvertì una leggera contrazione allo stomaco - o per lo meno è ciò che provai io). Resta calmo, pensai. Tanto deve succedere. Non puoi evitarlo ed è naturale, pensai.
« Mon téléphone, » disse, « Je dois répondre. »
« Certo, fai, » replicai un poco impacciato.
Ripresi il bicchiere, accavallai le gambe e mi passai la mano fra i capelli. E attesi.
« Delle persone ti devono parlare, » disse l'avvocato.
« In merito a cosa? »
« Questo non lo so. »
« E chi sono le persone che vogliono parlare con me? »
« Saranno loro a presentarsi. Hai un appuntamento domani. Ti devi risposare. »
L'incantesimo si ruppe e la ragazza mi mostrò la stanza, spiegandomi che avrei alloggiato da lei per tutto il tempo che fosse necessario. Ricordo che mi diede le chiavi di riserva dell'appartamento, una card per muovermi con i mezzi in città e degli asciugamani puliti. Poi si ritirò nello suo studio dicendo che aveva del lavoro da sbrigare per la Commissione europea.
Aggiunse che avevamo ancora un paio di ore davanti a noi prima di partire per una festa all'ambasciata, dove avremmo ritrovato anche il cardinal Hengen. Ringraziai per l'ospitalità e feci una doccia. Avvertii d'un tratto tutta la stanchezza del viaggio e mi misi a letto per riposare ed era ora.
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III
Eravamo tutti all'interno di uno enorme scarafaggio. I due pavoni bianchi decoravano la facciata e avevano gli occhi vispi e si battibeccavano allegramente. La foglia oro metteva in evidenza la scena primaverile e sul lato destro dell'edificio c'era una carriola coperta da un telo trasparente, che stonava con l'armonia geometrica (o naturale) dell'architettura.
All'ingresso c'erano due uomini calvi in abito da sera, uno dei quali indossava dei pantaloni a gamba larga, corti e quasi femminili. I suoi calzini a pois erano comici. Controllavano i pass e, con un metal detector portatile, il contenuto delle borse.
« Viens. »
La ragazza era a proprio agio e conosceva il posto. Entrammo. Due hostess accoglievano gli invitati; avevano un vestito austero e dalla tonalità violacea, e indossavano il velo. L'atrio non era molto grande e ci dirigemmo verso il guardaroba, sulla sinistra. I rami in ferro, aggrovigliati sulle pareti, avevano alle estremità una piccola lampadina che emanavano una luce soffusa e gradevole: tutto il luogo non era che una immensa natura morta e mi piaceva.
Lungo la scalinata principale si scioglieva un tappeto di fibre vegetali, che salimmo per andare al primo piano. Non potemmo non ammirare, proprio lì a due passi, il grandioso dipinto di Théo Van Rysselberghe. Alzando lo sguardo vedemmo poi una smisurata vetrata a forma di farfalla luminosissima.
Era l’ambasciata saudita in stile art nouveau, situata in rue Molière 39.
Mi guardavo attorno; non era il mio ambiente ma mi piaceva.
In una saletta quasi nascosta vidi il cardinale che parlava con delle persone. Vedevo che gesticolavano e ridevano e non potevo ascoltarli e un po' me ne rammaricai; volevo avvicinarmi, origliare.
Alla festa figuravano giornalisti di varie testate internazionali tra cui un certo Kevin, un americano di media statura, snello, capelli rossi e sorriso stampato in faccia. Era proprio un americano, pensai. Ma non sapevo perché sorridesse. La ragazza lo conosceva di vista perché lo vedeva spesso nella sala stampa della Commissione europea. C'era molta gente e fummo costretti a passargli accanto. Lei lo salutò e nel giro di poche battute Kevin cominciò a parlare del suo privato.
« Sei qui da vent'anni? » gli chiese uno.
« Sono venuto per amore ma poi, » disse l’americano alzando le spalle, « sono rimasto per il lavoro. Alla fine con lei è durata una settimana. »
Bravo, pensai; e a me che me ne importa?
« Succede, » disse sempre uno.
« Le mie storie durano poco. Poi a quarant'anni mi sono detto: ehi ma che stai combinando? Oggi sono un marito esemplare. »
Io mi giravo di continuo cercando punti di fuga visivi. Ogni tanto parlavano in inglese, una lingua che avevo dimenticato e che, con il vociare della sala, mi risultava incomprensibile.
Con il francese me la cavavo. Il cardinale, sebbene fosse lussemburghese o parlasse un buon italiano, a palazzo proferiva sempre nella lingua di Voltaire. A lui piaceva molto Racine (ma parlava il francese anche per via della diplomazia). È vero anche che un giorno mi capitò di compulsare un vecchio libro di grammatica francese del cinquecento e mi appassionai. Sono capace di leggere un testo arcaico di Jan Antoine de Baïf, ma non di chiedere al salumiere duecento grammi di prosciutto. A me stava bene così, pensavo. Io parlo il vero francese.
« Hai bambini? » chiesero ancora all’americano.
« Sei anni fa pensavo che non li avrei mai avuti e non li volevo, in effetti. Mia moglie mi disse che se li volevo bastava chiedere. Poi ho scoperto che era proprio lei a volerli. Incredibile. »
L'americano ci ammorbò poi con una storia palesemente inventata sul perché dovette lasciare l’america e forse l’unica cosa plausibile era che lasciò il paese della libertà per via delle sue idee politiche e gli stava bene così e a me continuava a non importare nulla.
Non distante da noi un piccolo banchetto con rinfresco divenne l’oggetto supremo delle mie aspirazioni. Ce n'erano molti, sparsi qua e là, e alla portata di tutti. Avevo fame.
« Io mi avvicino, » dissi a Stéphanie indicando la zona del cardinale.
Feci cenno al cardinale e non mi vide. Alzai più volte la mano. Niente. Alla fine mi vide e a sua volta mi fece segno di raggiungerlo. Quando mi avvicinai mi resi conto che era in corso un dibattito acceso, ed è per questo che non fui presentato o allora m’ignorarono e basta. Il cardinale discuteva di teologia con uomini d’affari e politici. Accanto a me c’era un uomo alto e silenzioso, sulla cinquantina, che ascoltava.
« Lei crede alla presenza reale nell'Eucaristia? » disse un tizio che doveva essere molto ricco.
« Io mi fido delle parole dette da Gesù, » e nel dirlo il cardinale fece un occhiolino e tutti ridevano.
« Noi all'elementari studiamo Darwin e non come in Italia. »
« Ma fede e ragione possono andare d'accordo o no? »
« Fino a pochi anni fa, forse. Ma l'anello mancante non esiste. I fisici sono prossimi alla scoperta della causa dell'universo, a prescindere da esseri invisibili. »
« O si pensa o si crede, » disse un altro citando un libro su Schopenhauer. L'uomo alto e silenzioso accennò un lieve sorriso. Tutti alzarono poi i calici e brindarono allegramente a non so cosa. Bevo perché è un Pommery, pensai. Altrimenti non avrei bevuto e me ne sarei uscito fuori all'aria fresca a guardare la piscina, come si guarda il mare o l'orizzonte.
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Mentre un pianista strimpellava delle marcette verdiane, fu annunciato il discorso dell'ambasciatore saudita e del principe Charles, fratello della regina Mathilde del Belgio, seguito da un breve saluto del presidente del Parlamento europeo e del cardinale, l'amico di tutti e di nessuno.
Com'è possibile che avesse una tale considerazione a livello internazionale questo non lo so. Dopotutto doveva occuparsi d'altro, il cardinale. Casca sempre in piedi, pensavo. Ma prima o poi casca male. Lui era il segretario del corpo direttivo del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso, uno speciale dicastero interno alla curia romana.
La sua attività era quella di « promuovere la mutua comprensione, il rispetto e la collaborazione fra i cattolici e i seguaci di altre tradizioni religiose; incoraggiare lo studio delle religioni; etc. »
Quest’istituzione composta da maschi si occupava di « visite » e « riunioni ». Loro ricevono visite dal mondo religioso o le fanno e quindi chiacchierano e vanno in vacanza e mangiano a spese dei fedeli.
Il potere del cardinale non mi faceva alcun effetto, tant'è che, se non fossi già stato un vero « qualcuno », accanto al cardinale avrei potuto a pieno diritto sentirmi un « qualcuno » qualsiasi.
Aima Kamel Al Scherif, principe e ambasciatore saudita, coordinava la festa ed era allegro. Il cardinale si accingeva a prendere la parola dal palchetto e lo vidi emozionato ed ero contento per lui.
« Non ci credo… non si è nemmeno fatto la barba, » disse la ragazza toccandomi il braccio.
« Senti Stéphanie, ma cosa stanno festeggiando? »
« Un importante contratto petrolifero tra l’Arabia Saudita e gli europei. Ma nell’affare è stato coinvolto anche il Vaticano. »
« Ma il Vaticano non si occupa di finanza immobiliaria? »
« Principalmente sì, ma anche di altre cose. Lo sapevi che investono in case farmaceutiche che producono la pillola abortiva? »
« Davvero ? »
« Sì, » disse lei sorridendo.
« Il mondo è pazzo. »
Il principe invitò la sala a fare silenzio e una mano mi toccò la spalla. Doveva essere l’americano che ci aveva raggiunti e mi preparai ad ascoltare le sue sciocchezze o i suoi commenti durante il discorso.
« Vuole lasciarmi passare, per favore? »
Era una vecchia ubriaca, e non l'mericano (per fortuna).
La sala era gremita e l’aria cominciò a farsi irrespirabile. Gettai un’ultima volta un’occhiata alle pareti. La ricchezza decorativa di quelle pareti mi lasciava esterrefatto. Qualcuno mi spintonò e per poco non feci cadere una bajour a forma di fungo. S'ispirano alla davvero alla natura, pensai. Peccato che non durò molto.
L'occhiata era fugace e finii per ammirare uno specchio graffignato del settecento che stonava con lo stile art nouveau di Victor Horta, l’architetto che progettò quella maison e che era un genio. Ma proprio da quello specchio « atonale » rispetto al tutto, potei rendemi conto di alcune anomalie. Sono pittore e la mia mente è allenata quando si tratta di riconoscere particolarità o piccoli dettagli, soprattutto quando ho a che fare con i volti. I volti sono il mio forte e in un mio ritratto c'è la vita. Guardavo quello specchio graffignato e ci vidi una delle hostess togliersi il velo, e aprire una porticina. Mai una donna musulmana si toglierebbe il velo, pensai. Perché dovrebbe farlo? quindi è strano. Nello specchio graffignato c'erano poi delle guardie del corpo. Dovevano esserlo. Uno era alto con pelle scura, ma magro; l’altro uomo era di media altezza e palestrato e grossolano. Quest’ultimo si tolse l’auricolare e fece cenno al palestrato di seguirlo in qualche posto. Sempre dallo specchio vidi come un lampo e feci uno scatto tale che sembrai un felino e improvvisamente udimmo un frastuono assordante.
Una pioggia di vetri infranti cadde nella zona dirimpetto al palchetto. Il suono fu talmente violento che in un primo momento molti credettero che a cedere fosse l’intero edificio, per quanto improbabile.
Istintivamente tutti si misero a gattoni o accovacciati per proteggersi, poi provarono a dirigersi verso l'uscita ed era bloccata.
Io mi guardavo attorno e la ragazza non c’era e m'inquietai.
La cercavo; ma non c'era.
« Scappare, » pensai poi fra me.
Agivo meccanicamente e volevo una via d’uscita e non la trovavo. E non trovavo la ragazza. Devi essere un uomo, pensai. Se vedi qualcuno col fucile devi fermarlo. Prendi un mezzo busto e sfracellagli la testa. Lo devi uccidere senza se e senza ma.
Poi nella confusione vidi il cardinale riverso a terra.
C'era ancora gente tra me e il prelato. Troppa. Tuttavia riuscii a raggiungerlo e mi ritrovai accanto al mio amico e lo guardavo.
Tremava.
Un proiettile gli aveva staccato la trachea e parte della gola era a brandelli. Il cardinale, con una mano, cercava di tamponare il buco e, mentre fissava il soffitto, cercò di dire qualcosa ma non aveva più le corde vocali.
Non vidi mai così tanto sangue nella mia vita. È orribile, pensai. Deve essere come nella guerra. Poi però fui preso da un problema tecnico: la densità del rosso. Come riprodurre sulla tavolozza una tonalità simile?
Il cardinale percepì la mia assenza e prese atto della propria solitudine e non poté fare altro che reagire e cotinuava a tremare.
Non fu mai, come in quella volta, così solo.
Cresciuto in una famiglia numerosa, aveva assaporato il calore umano e in seminario il valore dell'amicizia. Pur non avendo mai lavorato, nella sua vita fu immerso nei rapporti: era un uomo della relazione.
Eppure non vide il film della sua vita passargli davanti: stava per farsi buio.
Il cardinale muoveva la bocca come un pesce che respira: voleva parlare.
In quel momento non ebbi modo di rifletterci, ma successivamente mi documentai e scopersi che danni del genere non potevano essere causati da proiettili normali. Doveva trattarsi di cartucce speciali, come le 7,62R, che contengono al loro interno proiettili-granata e quelle ti distruggono.
Ad ogni modo il mio amico era lì, agonizzante, e il mio unico pensiero fu quello di lasciarlo al proprio destino. Dovevo pensare a me. Dovevo salvarmi e salvare la ragazza.
Feci per alzarmi ma la mano del cardinale mi afferrò violentemente come uno squalo che ti azzanna.
Continuava a fissare l’oscuro cielo con gli occhi sbarrati e boccheggiava.
Dall’abito talare estrasse una lettera e me la diede e la misi in tasca e non la guardai nemmeno.
Il suono dell’allarme era insopportabile.
Ma il problema ora era un’altro: bisognava uscire da lì.
Guardai il cardinale per l’ultima volta.
Tutto ciò non aveva senso.
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IV
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Riemergere da uno stato d’incoscienza così, su due piedi, è raro. Il processo è lento e molto sofferto. Avvertivo un profondo senso di straniamento, come se mi vedessi dall’esterno. Non comprendi come sia stato possibile perderla quella coscienza. Poi qualcuno ti rialza e ti chiede se stai bene e sorride. Ti stringi a lui, o lei, speranzoso nonostante tu non abbia mai creduto nella speranza. La prima immagine che riuscii a visualizzare fu quella di un ingiallito condotto dell’aria condizionata e il puzzo. Ricordo ancora il suono squillante del telefono; le mie orecchie erano talmente ipersensibili che anche il rumore di un insetto avrebbe generato in me angoscia. Intravidi un volto sconosciuto che mi parlava. Quel volto lo vedevo sfuocato e cercavo di capire. Provai a colpirlo, quel volto, ma senza sapere il perché. Mi sentivo male.
« Fermo, fermo. Prendetemi dell’acqua, » disse lo sconosciuto dalla voce flebile. « Tieni, bevi. »
Provai a reggere il bicchiere ma non ne ebbi la forza. Avevo in bocca una sensazione terribile di amarezza, come se avessi appena preso un antibiotico. Ora l’offuscamento alla vista andava via via scomparendo e cominciai a guardarmi attorno ed ero molto triste. Capii subito che stavo seduto su un divanetto in pelle, molto comodo, dal fatto che lo toccavo con le mie mani. Accanto a me c’era un televisore e un piccolo tavolino con sopra delle riviste molto vecchie. Quelle riviste erano gialle pure loro. Sembrava fossi stato catapultato nell’ufficio di un preside d’una scuola provinciale degli anni ’60. V’erano inoltre due scrivanie, una piccola e l’altra leggermente più grande e se una persona qualunque fosse entrata quel giorno avrebbe visto sui muri diversi dipinti raffiguranti scene belliche oppure quattro archelogiche armature medievali agli angoli della stanza. Tutte le pareti della stanza erano ingiallite a causa del fumo di sigarette e ogni cosa, infatti, era impregnata del tipico puzzo nauseabondo. Allora pensai: "Ti ricordi quando provasti a fumare? Per poco non ti strozzavi. Se questo è il fumo preferisco evitare. Se questo è il fumo allora non mi piace."
Volevo alzarmi e qualcuno provò ad aiutarmi; ma niente.
« Lascialo stare, » disse un’altra voce ma più robusta, « Abbiamo tutto il tempo. »
Tutti i miei sensi si aguzzarono meccanicamente ma non la ragione, motivo per cui non riuscii a fare il punto della situazione né speculai sul dove, sul come o sul perché io fossi lì.
« Insomma ti sei fidanzato e non dici nulla? Quando me la presenti la tua ragazza? » diceva la voce robusta.
« Certo che gliela presento dottore, ci mancherebbe, dottore. »
« Io ora ti invito ufficialmente a cena e su questo biglietto hai il numero e l’indirizzo di casa nostra. Mia moglie è un’ottima cuoca, vedrai. »
« Dottore ma poi la gente che pensa? Un semplice cancelliere a casa di un dottore... »
« Domenica sera voi siete miei ospiti e mi offendo se non venite. »
« Come vuole Lei, dottore, » rispondeva la voce flebile.
Dal mio risveglio passarono sì e no una trentina di minuti. La volontà di vivere, di capire – e un caffè orrendo – mi diedero finalmente la forza necessaria di reagire e di prendere coscienza del mio stato. Venni scortato e fatto accomodare in una delle due sedie di legno alla scrivania grande e ci andai di malavoglia. Notai davanti a me, sulla destra, una piccola scultura in bronzo ed era secondo me una riproduzione di quelle che si trovano in vendita nei musei. Dall’altra parte della scrivania un uomo sudato agitava una penna e scriveva, alzava gli occhi al cielo e poi ancora scriveva e bestemmiava e non mi guardava. Le dita dell’altra mano erano completamente gialle, quasi dorate. Ce ne sono molte di quelle dita in giro, pensai. Quelle dita spesso appartengono a mani ruvide. Quello che bestemmiava era l’uomo dalla voce robusta e dietro di lui, sulla parete scarna, era appeso un dialogo tratto dal film La battaglia di Midway. Ho visto quel film, pensai.
Io nell’attesa cominciai a sfregarmi i pollici quando l’uomo davanti a me disse:
« Si sente meglio? »
« No. »
« Bene. Molto bene. »
L'uomo dalla voce robusta aspettò troppo a picchiettare la cenere della sigaretta, che gli cadde sui pantaloni e altre bestemmie volarono: « Oggi se ne va tutto il calendario. Oggi, come è vero Dio, se ne va tutto il calendario. »
Poi l'uomo dalla voce robusta disse:
« Le cose per Lei si mettono male. »
Non seppi che rispondere e alzai di poco le spalle.
« Ma tutto a suo tempo. Si rilassi. »
Lo vidi alzare la testa e col braccio destro fece cenno a qualcuno d’entrare. Io non mi voltai e restai al mio posto. Non sono intimidito; voglio solo capire che succede, pensai. Al che ricordo che il « colloquio » prese una brutta piega e lo capii dal tono generale e formale con cui l’uomo dalla voce robusta continuò a proferire.
« Oggi è il… del…, sono le 3:15 del mattino, questo è un atto istruttorio della Procura Reale di Bruxelles, che è rappresentata nella circostanza da me, August Falk. Vengo assistito per la relazione del verbale e per le operazioni di audioregistrazione dal cancelliere Marc Mertens. A seguito di un rituale di convocazione immediata è comparso innanzi all’ufficio Rosa Sebastiano, il quale cortesemente ci deve fornire le Sue generalità. »
August Falk era un magistrato belga proveniente dalla comunità germanofona. Il celebre Gallia est omnis diuisa in partes tres è valido ancora perché il paese della birra e del cioccolato è diviso in due grosse fette: le Fiandre, a nord, e la Vallonia, a sud. Ma a sud-est si trova una piccolissima regione di cultura tedesca confinante con la Germania. Durante la Prima guerra mondiale, e a seguito del Patto di Versailles, la Germania sconfitta dovette rinunciare a parte del proprio territorio.
Successivamente Hitler se ne riappropriò per poi riperderlo nel 1945. Falk, mi documentai poi, veniva da una famiglia di contadini « ariani » e i suoi genitori morirono in un incidente quando lui aveva cinque anni. Crebbe con i nonni, i quali, durante la guerra, ebbero non poche simpatie per il nazismo e a lui questo non piaceva.
« Prego, le Sue generalità, » mi disse di nuovo il magistrato.
« Sebastiano Rosa, nato a… il… 1989. »
« Sono tenuto a riferirLe che può avvalersi della facoltà di non rispondere e che tutto quanto Lei avrà intenzione di dire potrà essere usato contro di Lei, nei Suoi confronti.»
« Sì, » risposi alzando ancora le spalle e annuendo.
« Anzitutto Lei deve dirci se intende rispondere oppure no, » disse lui.
« Sì, certo, » dissi con voce strozzata.
« Va bene. Già che vuole rispondere è una gran cosa. Risponda sempre. »
« Io rispondo. Valuterete voi… » e qui m’impappinai, « Che… È il vostro lavoro. »
« Che intende dire? Parli chiaro. »
« No, niente. Quello che intendo dire è che rispondo. Poi spetterà a voi valutare l’attendibilità di quello che dico. »
« No Rosa è Lei che deve valutare quello che dice. » La sua voce si fece ancora più robusta.
« Sì. »
« E se non vuole rispondere, Lei ne ha facoltà, » disse soffocando una nuova bestemmia (ma la pensò, sicuramente).
Il magistrato cominciò a fissare un fazzoletto sgualcito, molto raffinato ma sgualcito e umido, sulla scrivania e alla mia sinistra. Era abbastanza ripugnante, il fazzoletto, ma sembrò catturare tutta la sua attenzione e lo fissai anch’io e notai delle iniziali ricamate:
F.M.A.
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Il magistrato riprese:
« Lei intanto ci conferma che ieri sera si trovava presso l‘Ambasciata dell’Arabia Saudita in rue… »
« Sì, lo confermo. »
Poi cominciò a chiedermi quale fosse il motivo del mio viaggio a Bruxelles e del perché fossi alla festa e se intendessi restare in Belgio e, in caso affermativo, per quanto tempo e se avessi assistito all'omicido e molte altre cose. Gli spiegai tutto, per filo e per segno e gli parlai anche di Stéphanie e delle anomalie viste allo specchio. Tutto. Nel dettaglio. Racconta quello che sai e non mentire, pensai. Non sai mentire quindi non lo fare.
Poi il magistrato tergiversò bruscamente ed ebbi la netta sensazione che ciò lo contrariasse.
« Poco fa mi è stata consegnata una scheda. Vi si parla di un Suo viaggio in Spagna, che Lei avrebbe compiuto quest’anno, nel mese di agosto. Il Vaticano l’avrebbe incaricata di portare a termine un negoziato politico… »
« No, non c'entra, » dissi spazientito.
« Questo lo lasci decidere a me. Risponda per piacere e non interrompa. Dicevo, un negoziato politico presso il re di Spagna. Può chiarire gentilmente questo avvenimento? »
« Fu per un altro motivo. Quell’anno ricevetti una commissione da parte della Casa Reale spagnola. Dovevo fare un ritratto della figlia del re, Sofia, ma non se ne fece più nulla perché la bambina si vergognava e piangeva. Ero però già partito e la regina Letizia, che amava molto la pittura italiana, imbarazzata per il mio viaggio a vuoto mi chiese di restare nella loro residenza estiva a Marivent Palace, a Maiorca. Ci rimasi circa due settimane dando lezioni di disegno alla regina. Questo. »
Il magistrato annuì e disse:
« Bene. Lei sa perché, all'ultimo momento, l'ambasciatore spagnolo ha declinato l'invito alla festa di ieri sera? »
« No. »
Il magistrato mise da parte la scheda e, come si dice, tornò a bomba, ed io pensai: "Bravo Sebastiano, hai mentito bene ma hai rischiato perché tu non sai mentire. Hai dovuto dissimulare e sei stato bravo." Era infatti quasi tutto vero: ero stato dai reali spagnoli, permasi a Marivent Palace due settimane, feci il ritratto di Sofia etc., ma ero stato anche incaricato dal Segretario di stato vaticano di portare un messaggio al re di Spagna da parte del papa. Attraverso di me il Vaticano aveva una « linea diretta » « veloce » e « riservatissima ». Ma rischiai troppo quando parlai del ritratto di Sofia, dicendo che in realtà non l’avevo dipinto, perché il magistrato avrebbe potuto controllare. Quel dipinto però faceva parte della collezione privata della famiglia reale e a me non risultava ci fossero in giro delle foto ufficiali del ritratto.
« Adesso guardiamo una cosa, » continuò il magistrato.
« Sì. »
« Guardi queste immagini, » disse voltando il monitor sempre alla mia sinistra, « Provengono dalla video sorveglianza dell’ambasciata. »
« Sì. »
« Questo è il momento in cui il cardinal Jacques Hengen viene assassinato. E questo è quello in cui c'è Lei. Si riconosce? Lo conferma? »
« Sì sono io. Confermo. »
« Bene. Mi fa piacere che Lei lo dica. Ora, questo è il momento in cui Lei s'inginocchia accanto al cardinale. Ora sta per rialzarsi ma viene afferrato al braccio e il cardinale prende qualcosa. »
« Sì. »
« Lei sporca la visuale. »
« Sembra, sì. »
« Che cosa ha ricevuto dalle mani del cardinale? » disse il magistrato tradendo una segreta soddisfazione, come se stesse per scoprire il mistero del secolo.
« La prego Rosa. Risponda alla domanda. »
« Non me lo ricordo. »
Il magistrato impallidì e, alzandosi di scatto, rovesciò dietro di sé la nera sedia ergonomica e prese un nuovo pacchetto di sigarette. Il magistrato aveva sbattuto la mano e ignorò il dolore acuto e, non riuscendo ad aprire il pacchetto, s’appressò a lui il cancelliere dandogli una sigaretta delle sue. Si mise poi le mani alle tempie e poi bestemmiò. In oratorio si bestemmiava, pensai. Lui bestemmia sempre come i ragazzi in oratorio davanti al prete e alla statua della madonnina.
Io poi lo guardai e vidi un lampo balenargli negli occhi e mi allertai un poco.
« Quindi mi faccia capire, » continuò il magistrato risoluto, « Allora, Lei si ricorda, con una precisione chirurgica, tutto di ieri sera, ma non si ricorda che cosa le ha dato il cardinale? È questo che vuole dirmi? »
Quel figlio di puttana mi aveva fregato.
A quel punto per me si stava mettendo veramente male e ormai per lui sarei stato solo un bugiardo, qualunque cosa avessi detto. Una parte di me pensava che tutta quella storia continuasse a non avere senso e non capiva del perché fossi lì; non capiva del perché fossi indagato o che cosa il magistrato avesse tra le mani. O allora « qualcuno » voleva incastrarmi, farmi accusare della morte del cardinale, farmi diventare un classico quanto banale « capro espiatorio ». Stare vicino al cardinale non ti ha aiutato, pensai. Era troppo potente quel cardinale e il potere è grigio. Senza di lui non hai più santi in paradiso e nessuna copertura. Nessuna. Qualcuno lo ha ammazzato e tu sei il principale sospettato e dopo soltanto poche ore.
E « loro » hanno pensato a tutto.
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V
La Caserme Général Baron de Witte de Haelen era un edificio bizzarro, un incrocio tra un tempio greco, un castello francese e un campo di concentramento tedesco. All’epoca – e ancora oggi – ospitava una sezione della polizia giudiziaria e della Procura Reale di Bruxelles. Ai lati della facciata principale v’erano due enormi ingressi con decorazioni scultoree (principalmente armature in pietra a mo di natura morta). Quel complesso a pianta rettangolare, negli anni ’10, fu convertito in deposito aereo, con un reparto preposto agli aerei confiscati nella Grande Guerra; il complesso militare venne in seguito abbandonato, per poi essere di nuovo valorizzato negli anni ’80. Io venivo interrogato nell’ufficio del magistrato August Falk; cominciò a fare freddo.
Di quella notte, oltre al freddo, ricordo soprattutto la stanchezza e volevo chiudere gli occhi. Devo essere lucido e fare attenzione a quello che dico, pensai in quegli istanti. La lucidità è importante. Sono innocente e la verità è dalla mia parte. Lui vuole distruggermi ma qui sono io il predatore.
Il magistrato continuava con il terzo grado e credeva d'essere più duro della roccia e poi alzò lo sguardo sopra di me.
« Mi faccia avere un resoconto dettagliato, August, » disse la voce gelida dell’uomo dietro di me. « Ma non abbia fretta. Diciamo entro mezzogiorno. »
Il magistrato annuì con la testa. L’uomo dietro di me aperse la porta e a quel punto colsi l’opportunità e mi voltai e niente: era troppo tardi.
« Possiamo riprendere, » disse Mertens.
« Aspetta, » disse il magistrato. « Va’ e chiama Dominique; digli di mettersi di guardia all’ingresso principale e di non far entrare nessuno senza mia autorizzazione. Poi torna e chiudi la porta a chiave. E digli che non deve discutere gli ordini. »
Istintivamente mi alzai e pensai: "Vogliono torturarmi. Ma perché arrivare a tanto? Gli farò passare i guai. E gli conviene uccidermi perché sennò li ucciderò io al momento opportuno. Forse non hanno capito con chi hanno a che fare."
Tuttavia notai il magitrato andare e venire e farmi cenno di stare calmo. Picchiettò la sigaretta e si diresse verso la finestra, scostando di poco la tenda e guardò giù per diversi secondi, forse un minuto abbondante ma questo non lo ricordo con esattezza. Il magistrato stava alla finestra, dietro la tenda, e guardava da uno spiraglio. Da dietro vedevo il colorito giallastro dei capelli alla base della nuca. Quei capelli dovrebbero essere bianchi, pensai. Eppure non sembra un uomo di età inoltrata.
Tornò alla scrivania e poi di nuovo alla finestra e bofonchiò qualcosa. Abbassò lo sguardo sul pavimento e poi gettò un’ultima occhiata e infine prese una sedia e, dopo averla piazzata nell’angolo alla sinistra della finestra, il magistrato vi salì sopra: stava disattivando l’unica telecamera di sorveglianza dell’ufficio. E tornando a sedere disse:
« Finalmente ci conociamo. »
Io aggrottai la fronte e allargai le braccia allibito.
« Non hai ceduto. Sai cosa significa? » disse lui sorridendo.
Con il capo feci cenno di « no » e lo guardai.
Nel frattempo Mertens chiudeva la porta e udimmo risuonare nella stanza i tre scatti della grossa chiave.
« Tu non c’entri nulla. E io non ho avuto scelta, » disse il magistrato.
« Perché sono qui ? » chiesi risoluto.
« Esatto. Questa è una gran bella domanda. Io so soltanto che tu sei il pezzo che avrebbe dovuto completare il puzzle. Ma Hengen è morto ed ora mi ritrovo con un pugno di mosche in mano. Tu non sai perché sei qui, e nemmeno io so perché sei qui. »
« Questo non mi aiuta. »
« Lo so e mi dispiace. »
« E quindi? »
« Quindi vediamo di venirci incontro. Ho preso un grosso rischio per te. Prima non ho mostrato l’intera sequenza della video sorveglianza. »
« Poteva farlo. »
« Sai che non è così. »
« A me pare che Lei fumi troppo. »
« Fumo da quando ero piccolo. »
« Come conosce Hengen? »
« Non lo conosco. Il cardinale mi ha contattato pochi giorni fa, chiedendomi di vederci. Dovevamo incontrarci oggi. Voleva parlarmi di una questione della massima gravità ma non volle dirmi nulla al telefono. Sai per caso di cosa si trattasse? »
« No. »
« Ascolta; io ora mi devo concentrare. Voglio vederci chiaro; mi ritrovo con una pratica avviata e ci sono pressioni esterne. Il procuratore generale ha fatto in modo che venisse aperto un procedimento immediato nei tuoi confronti. Questo complica le cose. Ma forse posso salvarti. Il fatto è che tutto sta avvenendo velocemente. Devo riflettere, rimettere ordine e concentrarmi per vederci chiaro. Tu qui sei al sicuro e non devi temere. Dov’è la lettera che ti ha dato Hengen? »
Con tono pacato dissi: « Non lo so. »
« Potrei crederti, » disse il magistrato. « Quando ti sei allontanato dal corpo del cardinale sei scomparso dal video per trenta secondi.»
« Stavo cercando Stéphanie e non la trovavo. »
« Tu hai letto il contenuto della lettera. »
« No. »
« Sì, ma non me lo dici perché non ti fidi di me. Qualcuno ti ha detto di non fidarti di me. »
« Guardi, sono tornato indietro con l’idea di uscire assieme agli altri. Una volta nella sala ho visto Stéphanie accovacciata in un angolo. È indifesa, ho pensato. Vado da lei, la devo salvare. »
« Il black-out dura quattro secondi. Poi torna la luce e tu e la ragazza non ci siete più. Abbiamo esaminato tutti i video. Un agente ti ha poi ritrovato a bordo piscina in stato d’incoscienza. Dimmi cosa è successo, ragazzo. Per me ogni dettaglio è importante. Io sono qui per aiutarti. »
« Dottore ho al telefono il capo della polizia scientifica, » disse Mertens. « La valigetta del cardinal Hengen è scomparsa e la scena del crimine è inquinata. »
« Non credo ci fosse nulla d’importante in quella valigetta, » dissi io.
« Perché dici questo? »mi chiese il magistrato.
« Perché è così. »
« E allora perché è scomparsa? »
« Ovviamente credevano di trovarci qualcosa. »
« Può darsi. »
« Chi ha inquinato la scena del crimine? »
« Tutti coloro che erano ieri sera alla festa. »
« Oppure qualcun’altro. Voglio dire, queste cose si vedono spesso nei film. »
« Hai detto bene, nei film, » disse il magistrato sorridendo. « Ma questo non è un film, ragazzo. »
« Ne è proprio sicuro? »
« Lo scenario che prospetti sarebbe il peggiore in assoluto. »
« Perché? »
« Perché la prima ad intervenire sul luogo del crimine è la polizia; e questo significa che qualcuno lì è corrotto. Ripeto, sarebbe una vera tragedia. Ma cerchiamo di non vaneggiare; qui non siamo in Italia. Bisogna aspettare. Il capo della scientifica mi fornirà ulteriori dettagli in giornata. »
Il magistrato si voltò poi verso Mertens, dicendogli che avrebbe fatto meglio a chiamare la compagna, una certa Marie, poiché non sarebbe tornato a casa quel giorno.
« Come vuole Lei, dottore, » rispose lui. « Ma è meglio che chiamo dopo, altrimenti rischio di svegliare la bambina. »
« Hai ragione. Ma chiamala, non farla stare in pensiero. »
« Certamente. »
« A proposito, non mi hai detto quando vi sposate. »
« A fine mese, dottore. Cotto e mangiato, come si dice. E Lei e la Sua Signora siete gli ospiti d’onore. Facciamo però una cosa semplice, intima. »
« Fate bene. Dovrebbero fare tutti come voi. »
Al che si sentii bussare alla porta. Il magistrato si mise in istato d’allerta e, dopo aver guardato il piccolo monitor della video-sorveglianza, disse al cancelliere : « Apri, è Dominique. È la prima volta che sale in ufficio. È l’uomo più pigro del mondo. »
Ora cominciavo ad essere davvero stanco. La stanchezza si tramutò presto in stress, lo stress in ansia e l’ansia in respiro corto. Hai imparato a gestire l’ansia, pensai. Ma ora devi dormire; se perdi il ritmo è finita e comincerai a soffrire di nuovo d’insonnia. Devi dormire. L’insonnia è tremenda; nel chiudere gli occhi brami il dormire e per pochissimi secondi hai una senzazione di benessere; ma poi gli occhi si riaprono ed è così per tutta la notte; la mente è in piena attività, ma tu non hai la forza e piangi dentro. Solo chi ha conosciuto mesi d’insonnia conosce la vera disperazione.
Vidi il magistrato sistemare le carte e questo era buon segno. Io gettai un’ultima occhiata alla piccola statuetta in bronzo davanti a me. Dove mi faranno dormire? pensai. Non importa. Sono troppo stanco, ora. Devo dormire. Poi vidi il volto del magistrato incredulo. Mentre lo guardavo si udì un grido: « No! Perché! » Le mie orecchie si ovattarono a causa di diverse esplosioni e fui quasi sordo per parecchi minuti. Alla mia sinistra Mertens venne scaraventato sull’armadietto e sciovolò a terra con le braccia in alto. Il magistrato cercò di aprire un cassetto ma venne raggiunto da un colpo al petto e cadde a terra. Io rimasi pietrificato ma mi voltai verso quel Dominique; mi puntava una pistola al livello degli occhi e lo guardavo e lui esitava. Poi fece fuoco e si sentirono dei clic a vuoto ed io continuavo a guardarlo con gli occhi aperti come per sfidarlo. Approfitta ora, Sebastiano, pensai. Uccidilo. Adesso. Uccidi il biondo. E mi sentii invadere da una forza sovrumana. Piegandomi mi gettai su di lui e, spingendolo in avanti, afferrai le sue gambe rovesciandolo a terra. Afferrai poi un piccolo tavolino e cominciai a colpirlo prima alle gambe e poi alla testa. Lui cercava di proteggersi con le mani il volto e la testa ma io lo colpivo con l’obiettivo di spaccargli sia le mani che la testa. Il tavolino si spezzò e allora presi la statuetta di bronzo. Tornai dal biondo e cercai di capire quale fosse l’angolo più favorevole per colpirlo e ripresi.
Mi fermai solo quando il sangue cominciò a zampillare dal suo cranio.
Basta, pensai. Devi uscire da qui. Davanti a te c’è una porta stretta, guarda se è aperta. Corri.
Passai sopra il corpo di Mertens che ora era in un bagno di sangue. Era stato colpito più volte allo stomaco. La porta stretta era chiusa e dovetti uscire da quella principale. Ti ricordi quella ragazza con cui uscivi, diversi anni fa? pensai. Era figlia di un magistrato e ti disse che suo padre aveva sempre un’arma con sé. Vedi se Falk ha una pistola. Forse prima voleva prendere la sua pistola, nel cassetto. Non prendere quella del biondo.
Trovai nel cassetto una pistola. Istintivamente detti un’occhiata veloce al corpo di Mertens, poi a quello del magistrato. Forse a causa dello shock non mi resi conto della situazione. Feci dunque per andare verso la porta quando all’improvviso ci fu una potente esplosione. Cercai di proteggermi incrociando le braccia davanti a me. Avertii una violenta fitta alle braccia, al petto e alle gambe e l’onda d’urto aveva divelto la porta e mi aveva scaraventato a terra. Nel giro di pochi secondi la stanza era diventata bollente e comunque questo era l’ultimo dei problemi. Non respiro, pensai. Non è possibile, i miei polmoni si sono bloccati. È la cosa più tragica che mi sia mai capitata. Non riuscivo nemmeno a tossire. La mano sinistra ancora ferocemente serrava fra le dita la pistola del magistrato. Mi aggrappai al piccolo tavolino e, facendo leva col gomito, provai ad alzarmi ma un piede di questo si spezzò e caddi e cominciai a realizzare che di lì a poco sarei morto soffocato. È fatta, pensai. Stai morendo e non puoi farci nulla.
Stéphanie, arte, gloria.
Queste furono le mie ultime immagini quando accanto alla porta, sulla destra, mi parve di scorgere un estintore. Nella mia mente urlai e decisi che non sarei morto in quel modo. Morire è giusto perché naturale e quindi non deve essere un problema. Ma il modo in cui si muore questo sì, è un problema. Ma come se non bastasse, nell’arco di un secondo, forse anche meno, mi angosciò il pensiero che non sarei riuscito a farlo funzionare quell’estintore. Con tutta la mia forza strisciai sotto di lui, mentre l’angoscia mi divorava e le dita della mano, che ora si erano bloccate, cominciarono a farmi malissimo. Sebbene la speranza come concetto mi ripugnasse, fu comunque questa a darmi la forza di mettermi in piedi e afferrare l’estintore. Lo tirai su per poi abbracciarlo, mentre con la mano destra cercai di maneggiarlo ed è lì che mi resi conto di quanto fosse facile il suo uso (e non poteva essere altrimenti, essendo uno strumento concepito per quelle situazioni). Basta pensare, pensai. Agisci e attiva l’estintore; sii preciso. Mi feci dunque strada domando alla bisogna il fuoco e riuscii ad uscire da quell’ufficio. Mi diressi a caso verso un corridoio stretto e illuminato dalle fiamme a terra, sperando potesse condurmi verso una porta d’emergenza, come quelle che si trovano negli ospedali e che spesso conducono direttamente fuori, all’aperto. Non mi sentivo più le dita della mano sinistra e non volevo assolutamente che la pistola cadesse a terra. Ma non potevo farci niente e comunque la mano rimase bloccata e pensai: ‘’Non senti più le dita ma non è detto che la pistola cada, perché la mano e le dita sono bloccate. Vai avanti e non fermarti. E non piangere.’’ Il mio campo visivo non superava il metro. Tuttavia m’accorsi d’essere davanti ad una porta, con una fessura circolare in vetro che emanava una leggera luce. Strabuzzai gli occhi irritati dal fumo e mi avvicinai per vedere meglio.
Era la sala di interrogatorio e dentro c’era Stéphanie priva di sensi.
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Continua...
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