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Walter Amirante

Critica della filosofia schopenhaueriana

Aggiornamento: 10 lug 2023

Parte prima




Al mio maestro

Arthur Schopenhauer



Questo mondo che ci si presenta in un modo così solido e inconfutabile, esiste per davvero o e solo apparenza? Possiamo dunque conoscere l'archè delle cose?



Il fenomeno e la cosa in sé


Nella storia della filosofia, ad un certo punto, il dualismo prese il sopravvento. Da un lato, l'ideale, ovvero quanto appartiene soltanto alla nostra coscienza; dall'altro il reale, ovvero quanto esiste a prescindere dalla coscienza stessa. I filosofi cominciarono ad indagare l'origine dei concetti: alcuni ritennero che essi fossero innati (a priori); altri che erano soltanto il prodotto dell'esperienza (a posteriori), sia del mondo esterno che interno. E qui dunque arriviamo al nocciolo della questione, perché entriamo nel campo della “filosofia pura”. Non si tratta solo di indagare l'origine di un concetto, ma addirittura di sottoporre ad esame critico l'intero apparato conoscitivo: la ragione umana. Immanuel Kant, il Copernico della filosofia, si è occupato del problema. Certo, il conoscere parte sempre dall'esperienza, e la nostra facoltà conoscitiva è stimolata da essa; tuttavia, non tutto deriva dall'esperienza. Il mondo oggettivo di per sé non ha movimento “intrinseco”: è il soggetto che osserva a proiettare il movimento del mondo – tesi, questa, problematica. “Fino a Kant c’era stato un dogma – come Kant stesso dice – cioè una credenza non dimostrata: che il mondo fosse ordinato, che la natura, la realtà, avesse leggi, ordine in se stessa,” (Antonio Gargano, Le tre critiche) Il soggetto dunque ha un apparato conoscitivo che “proietta” sull'oggetto. “Non possiamo avere alcuna conoscenza delle cose quali sono in loro stesse, prescindendo dall’apporto formale, dall’aggiunta formale, che noi stessi diamo alla conoscenza. Non possiamo mai raggiungere la conoscenza delle cose nella loro oggettività, quali esse sono in loro stesse. Di conseguenza abbiamo una conoscenza soltanto fenomenica del mondo (dal verbo greco pháinomai, apparire),” (Ibidem). Con Kant dunque abbiamo una netta distinzione tra ciò che lui chiama fenomeno, e la cosa in sé. Il fenomeno è tutto ciò che ci circonda, il “dato”, l'esperienza; la cosa in sé, al contrario, è al di là del fenomeno, la “vera realtà” che si presenta “in quanto tale”. Ma tra noi e la cosa in sé sussiste l'apparato conoscitivo. Avviene quindi sempre una mediazione tra noi e la realtà. Questa dottrina, tecnicamente, è chiamata “della completa diversità dell'ideale dal reale” (A. Schopenhauer, Critica della filosofia kantiana, Editori Laterza, pagg. 448-449). Prima di procedere, però, conviene precisare il significato dei termini “ideale” e “intuizione”, onde cadere in confusione. Ideale viene da “idealismo trascendentale”, ovvero è ciò che viene riconosciuto nell'a priori della nostra conoscenza, ed è “indipendente” dall'esperienza. Attenzione: trascendentale non va confuso con trascendente. Trascendente infatti è un “lato puramente formale” della nostra conoscenza, che Kant chiama “iperfisico”. In altre parole, “trascendentale significa <<anteriormente a ogni esperienza>>, trascendente <<al di là di ogni esperienza>>,” (A. Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Frammenti sulla storia della filosofia, Adelphi, pag. 123). Mentre “intuizione” non ha a che fare né con il “guardare attentamente”, né con una speciale facoltà “sensitiva”, o “artistica”, ma piuttosto con l'intuizione immediata del sensibile.


Ma torniamo a noi. Il fenomeno è si “apparenza”, ma non “illusione”; ha comunque esistenza oggettiva, “esso ci è dato”, ripete Kant, e la nostra facoltà conoscitiva lo “interpreta”. Questo è ciò che fece impazzire Schopenhauer, come vedremo a breve. Ovviamente ogni forma di “dualismo netto” è minato alla radice da profonde contraddizioni; la più evidente, già rintracciata da Severino, è la seguente: se la cosa in sé è inconoscibile, come è possibile ch'io possa darmene una rappresentazione? Perché riesco a pensarla, a concepirla? Id quod conciperi totum in se non est”, tutto ciò che è concepito, non è in sé – potremmo dire noi. E' vero, il mondo è un mistero, ma questo non vuol dire che la soluzione dell'archè non possa essere rintracciata nel mondo stesso e quindi nell'esperienza, interiore ed esteriore. Dello stesso avviso è il divino Schopenhauer: non possiamo sorvolare l'esperienza; al contrario, si tratta d'intenderla a fondo, poiché essa è “la fonte principale di ogni conoscenza; perciò solo con l'opportuno allacciamento, eseguito al punto giusto, dell'esperienza esteriore con l'interiore, e col collegamento così effettuato di queste due così eterogenee fonti di conoscenza, è possibile la soluzione del mistero del mondo;” (Critica della filosofia kantiana, Editori Laterza, pag. 458). Con Schopenhauer abbiamo il culmine dell'idealismo, portato alle sue più estreme conseguenze – anche in virtù del fatto che egli cercò una saldatura tra il pensiero occidentale e quello orientale (pur con tutti i limiti del caso). Questo fu il suo grande merito; tant'è che oggi risulta impossibile, quando si fa filosofia, non tenere conto della produzione millenaria orientale, considerandola “alla pari” di quella occidentale. Allora, il “Budda di Danzica” condivide con Kant l'idea che le leggi che dominano l'esperienza non possono essere utilizzate per spiegare l'esistenza stessa; e quindi il loro valore è solo relativo. I fenomeni del mondo sono compresi nel principio di ragione*, ovvero nelle categorie a priori di tempo, spazio e causalità (semplificazione delle dodici kantiane). Si è però creduto che, queste leggi, fossero assolute e da nulla determinate (aeternae veritates), e che il mondo stesso “fosse solo in conseguenza e conformità di esse, e che perciò secondo la loro guida si dovesse poter risolvere il problema del mondo,” (Ibidem, pag. 450). Tutte le “ipotesi” prodotte dal principio di ragione non farebbero altro che “innalzare” il puro fenomeno – che Schopenhauer interpreta come “illusione” e, riprendendo la metafora indiana, “velo di Maya”, o il mondo delle ombre di Platone. Le “verità eterne” hanno origine nella testa umana: “Qui dunque, nel cervello, è la cava, che provvede il materiale per quella superba costruzione dogmatica,” (Ibidem, pag. 451). Il realismo, accusa Schopenhauer, è anch'esso puro fenomeno. “Prima di Kant eravamo noi nel tempo; adesso è il tempo in noi, e così via,” (Ibidem, pag. 454). Quel “così via” intende inoltre che quei concetti tanto cari ai ciarlatani, come “essere perfetto”, “perfetta umanità”, “Essere perfettissimo”, quando usati in modo astratto, sono semplicemente vocaboli vuoti di pensiero: sono pura verbosità. Tuttavia, pur rimanendone debitore, l'immenso riconoscimento è direttamente proporzionale alla distruzione che Schopenhauer stesso opera, distaccandosi, nei confronti del pensiero kantiano* (vedi anche I due problemi fondamentali dell'etica). Il nocciolo problematico è nella espressione, spesso ripetuta da Kant, secondo cui l'esperienza dell'intuizione ci viene “data dall'esterno”. Schopenhauer ritiene “insignificante” questa affermazione, poiché l'impressione del mondo esterno, il “dato”, è una “semplice sensazione nell'organo di senso, e solo con l'applicazione dell'intelligenza (cioè della legge di causalità) e delle forme intuitive dello spazio e del tempo il nostro intelletto tramuta questa semplice sensazione in una rappresentazione,” (Ibidem, pag. 469). Ma emerge anche un'altra questione: in realtà Schopenhauer accusa Kant di aver modificato la prima versione della Critica della ragion pura, dove emergeva palesemente che il fenomeno è in tutto e per tutto “illusione”. Probabilmente questo spiega che Kant, quando rimise mano all'opera, ebbe un ripensamento: certo, il mondo ci è “dato”, appare come fenomeno, ma non è illusione. In sostanza, per il Budda di Danzica bisognava avere il coraggio di riconoscere questa verità: “Nessuno oggetto senza soggetto,” (Ibidem, pag 464). Eccolo, il mantra schopenhaueriano, la chiave di volta per la comprensione profonda del suo sistema. Il mondo esiste sempre e solo in relazione al soggetto; il mondo dipende dal soggetto, è determinato dal soggetto “e quindi, quale semplice fenomeno, che non esiste in sé indeterminatamente,” (Ibidem, pag. 464). Infatti nella prima edizione della Critica, a pag. 383, Kant scrive: “Se io tolgo il soggetto pensante, deve cadere tutto il mondo dei corpi, come quello che non è, se non il fenomeno della sensibilità del nostro soggetto ed è una specie di rappresentazione dello stesso,” (Ibidem, pag. 465). Questo passo però viene cancellato nella seconda edizione, evidentemente perché così espresso, appunto, portava a pensare “fenomeno = nulla”, non esiste in sé. Ma τόϕαινόμενον, ciò che “appare”, non vuol dire automaticamente ciò che è “illusorio” - insistiamo su questo perché è una differenza molto importante. L'archè è dunque il soggetto? No, anch'esso è fenomeno, illusione. Mh... La cosa si fa avvincente. Quello di Schopenhauer è l'unico e vero sistema organico che mente umana abbia mai prodotto: confutarlo nelle idee fondamentali ci permetterà di far emergere l'aspetto genuino, ma riveduto, della sua dottrina; aspetto, questo, che faremo confluire in quella sorta di processo di unificazione delle idee che vogliamo coraggiosamente tentare. Egli è Tradizione; e per dirla con Gustav Maher, la tradizione è custodia del fuoco, non delle ceneri. Bene. Il mondo è Vorstellung, rappresentazione – in tedesco ha anche il significato di “idea”, “immagine”. Quando l'individuo riconosce e accoglie dentro di sé questa verità, allora è “penetrata in lui la meditazione filosofica,” (Il mondo come volontà e rappresentazione, Edizioni Laterza, §1, pag. 25). Tutto ciò che esiste, il mondo, è soltanto “oggetto in rapporto al soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione,” (Ibidem). Dunque l'errore di Kant fu l'aver rifiutato questo principio che, al contrario, è alla base della filosofia indiana.* (Ibidem, pag. 26)


Tuttavia qui ci scontriamo subito con una pesante contraddizione del suo sistema. Il mondo, la realtà, non ha esistenza in sé, ed esiste solo in relazione al soggetto, dipende da lui, ed è lui che lo determina; ma nella nota a pag. 26 Schopenhauer afferma: “Il dogma fondamentale della scuola Vedanta non consisteva nel negare l'esistenza della materia, cioè della solidità, impenetrabilità ed estensione (ciò sarebbe stolto negare), bensì nel correggere il concetto volgare di quella: affermando che la materia non ha un'esistenza indipendente dalla percezione mentale, che esistenza e percettibilità sono termini a vicenda convertibili.” Ora, se la materia non ha una esistenza indipendente dal soggetto, vuol dire che noi stiamo negando la materia, cioè il mondo. Dunque è stolto o non è stolto negarla? Senonché al di là della rappresentazione si accenna all'altra “paurosa verità”, e cioè che il mondo è “la mia volontà”. Qui ci troviamo davanti a un aut aut: la realtà o è rappresentazione, o è volontà; affermare che essa sia un oggetto in sé non è nient'altro che “una chimera di sogno, e la sua assunzione un fuoco fatuo della filosofia,” (Ibidem, pag. 27). Il soggetto – che in altri passi verrà definito “zimbello della specie”* - sembra rivestire una importanza capitale: è lui che porta in sé il mondo; lui è l'universale. Ma è anche allo stesso tempo corpo, oggetto fra oggetti, donde la pluralità; e come oggetto egli è nel tempo e nello spazio – considerato però come soggetto, egli non sta più nello spazio e nel tempo, perché al suo interno è intero e indiviso, quindi non plurale. In virtù di ciò, se pure un unico soggetto, che integra con l'oggetto il mondo della rappresentazione, svanisse, cesserebbe di esistere anche il fenomeno. Una volta compresa l'idealità del mondo, sarebbe una contraddizione presupporne l'esistenza se non come rappresentazione (Parerga, pag. 53,28). Ma il presupporlo risulta una contraddizione solo in virtù della stessa contraddizione che Schopenhauer introduce; per dirla in termini volgari: se la canta e se la suona. Ora, questo ragionamento, a tratti, potrebbe apparire contorto e quasi delirante; si tratta comunque di un'opera del 1818 e, principalmente, fonda la propria conoscenza soltanto sull'argomentazione filosofica. Arriviamo alla seconda questione discutibile. Le forme essenziali di ogni oggetto e quindi di ogni rappresentazione sono tempo, spazio e causalità. Queste forme possiamo trovarle a prescindere dal mondo, e muovendo cioè dal soggetto: esse sono date a priori nella nostra coscienza (Ibidem, §2, pag. 28). Semplificando, questo è il “principio di ragione” schopenhaueriano: dunque forme “universali” che ci permettono di determinare il mondo, di vedere un oggetto nello spazio, di vederlo in un tempo, di vederlo muoversi e, attraverso l'intelletto, comprenderne la causalità. Ma sono davvero a priori? E per di più universali? Non sarebbero anch'esse il prodotto dell'esperienza? Non sarebbero al contrario relative? Eppure la distinzione “tempo, spazio e causalità” sembra risentire molto la concezione della fisica classica. Anzitutto, Schopenhauer intende l'essenza del tempo come mera successione; l'essenza dello spazio come mera posizione; e l'essenza della materia come mera causa ed effetto e perciò mera attività. (Ibidem, §4, pag. 31). Inoltre “tempo e spazio, ognuno per sé, sono anche senza la materia intuitivamente rappresentabili; invece non la materia senza quelli,” (Ibidem). Qui non possiamo non rilevare una conseguenza logica di queste affermazioni: e cioè che per a priori, alla fine, sembra doversi intendere innate. Comincia dunque a prospettarsi, anche indirettamente, un'idea “fissista” dell'uomo che di fatto negherebbe la verità del processo darwiniano, e quindi dell'evoluzione del cervello e delle sue funzioni etc. Ma il principio di ragione è il prodotto del cervello, e il cervello è materia: se anche fosse vero che tempo e spazio noi possiamo intuirli senza di essa, rimane comunque il fatto che questa intuizione è il prodotto di un cervello, cioè di materia: la materia dunque intuisce se stessa. Pertanto l'errore, questo sì, madornale del Budda di Danzica è stato quello di ritenere tempo e spazio, in sé, “forme vuote” (Ibidem, 34). Certo, dall'unione di queste risulta la materia, ma non bisogna ingannarsi: “ogni causalità, perciò ogni materia, e quindi l'intera realtà esiste soltanto per l'intelletto, mediante l'intelletto, nell'intelletto,” (Ibidem, pag.34). Per intenderci, l'intelletto è una funzione dell'apparato conoscitivo e ha il compito specifico di conoscere la causalità* – e Schopenhauer, sia detto a suo merito, attribuisce l'intelletto anche al mondo animale, cosa che la scienza ha effettivamente confermato*. Quindi vediamo ancora una volta, come, di per sé, la realtà non abbia esistenza oggettiva. Il realismo risulterebbe ingenuo nel ritenere che “i corpi come tali non esisterebbero soltanto nella nostra rappresentazione ma esisterebbero realmente e veracemente,” (Parerga, pag. 53,28). Solo che la fisica ha scoperto che tempo e spazio son tutt'uno (Einstein); e lo spazio-tempo sembra essere a sua volta un tutt'uno con la gravità (che Schopenhauer addirittura estromette dalle forme a priori, a differenza di Kant)*§4 pag.34. Inoltre, con la fisica quantistica, anche l'argomento del principio di causalità è saltato. Ora, è vero, lui non poteva sapere queste cose. Resta però il fatto che la sua “verità” comincia a sgretolarsi; e comunque non possiamo scusarlo sulla questione del possibile innatismo, poiché teorie che prevedevano la prospettiva dell'evoluzionismo circolavano già nel settecento (d'Holbach). Dunque queste forme non possono essere a priori nella coscienza, ma sono sempre a posteriori, e si modificano man mano che l'uomo “scopre” la natura. Il cervello, attraverso le sue funzioni, tra cui la ragione, ha dovuto “accogliere” a posteriori la teoria della relatività, ricalibrando tutto l'apparato conoscitivo: un continuo processo di tentativi ed errori, di adattamenti e “immagazzinamenti”. La scoperta, poi, oggettiva, della velocità della luce come costante universale, sembra indicare che, in fondo, questo nostro mondo è proprio reale – forse fin troppo – ed esiste a prescindere da noi; mentre la conferma da parte della genetica della teoria di Darwin ci mostra che, per conseguenza: 1. il soggetto è il prodotto della natura; 2 il soggetto è dalla natura condizionato. Noi potremmo aggiungere che 3. il soggetto reagisce e “tenta” di determinare la realtà attraverso il predominio su di essa (pur sapendo che morirà con le armi in mano). Il dualismo, il distacco dalla realtà, e dalla sua effettiva esistenza, hanno portato Schopenhauer in un vortice senza fine di affermazioni assurde per cui il monito aristotelico, quasi a volersi vendicare dell'infame insulto, recita: “Una volta introdotta una assurdità, tutte le altre ne scaturiscono di conseguenza, (Aristotele, Metafisica). Tuttavia la confusione comincia a prendere il sopravvento man mano che si procede allo studio approfondito del suo sistema. Poco dopo, al §5, pag. 37, troviamo questa argomentazione: “...il mondo che si manifesta come pura causalità, è pienamente reale, ed è in tutto e per tutto come esso si dà: e sì dà intero e senza riserve come rappresentazione, disposta secondo la legge di causalità. Questa è la sua realtà empirica. Ma d'altro lato ogni causalità è soltanto nell'intelletto e per l'intelletto; quindi tutto quel mondo reale, ossia attivo, è come tale condizionato ognora dall'intelletto, e non è nulla senza questo.” E' il cane che si morde la coda: il mondo è pienamente reale, ma allo stesso tempo non esiste in sé indeterminatamente; il soggetto lo condiziona con l'intelletto, senza il quale non sarebbe “nulla”.


Facciamo un passo avanti: per via dell'idealità trascendentale non solo il fenomeno non sarebbe nulla, ma esso è il nulla. (Libro III) Però il punto, o il vero aut aut, è questo: o il mondo esiste pienamente, oppure no; tutto il resto è contraddizione – se non addirittura mistificazione, o, per usare il vocabolario schopenhaueriano, “pura verbosità”. A meno che non dicessimo, in modo esplicito, che la natura del principio originario è contraddittoria (similmente come lo Ying e lo Yang nel Taoismo). Insomma, a chi ha intenzione di spiegare la realtà esterna del mondo – continua Lui - con l'indipendenza dal soggetto, va negata questa realtà. Il mondo è rappresentazione ed è eternamente relativa al soggetto (idealità trascendentale). “Tuttavia il mondo non è per questo né menzogna né illusione: si dà per quello che è, come rappresentazione, e precisamente come una serie di rappresentazioni, il cui vincolo comune è il principio di ragione,” (Ibidem). Ma il Budda di Danzica aveva affermato in apertura, al §1, citando i Vedanta, che il mondo come rappresentazione è “Maya, il velo ingannatore” - salvo cadere subito in contraddizione nella nota, come abbiamo visto sopra. Più avanti (§5) concorderà poi con Platone, i Veda, e Calderon nel ritenere che la “vita è sogno”. Ma procediamo subito alla seconda ipotesi che Schopenhauer propone: il mondo come volontà.


Il problema del Wille in Schopenhauer



Per quanto possa apparire assurdo, l'aver destabilizzato una parte dell'edificio filosofico di Schopenhauer non vuol dire automaticamente averne compromesso le fondamenta. È vero, “nessuno oggetto senza soggetto” è una ipotesi che porta dritti al paradosso, alla contraddizione, all'assurdità. Sicché, invertendo la formula in: “nessun soggetto senza oggetto”, questo sembrerebbe rispecchiare di più la realtà delle cose. Non c'è niente da fare, e sarebbe un grave errore lanciarsi in un sistema frutto di speculazioni astratte che non hanno attinenza, davvero, con il mondo. “L'uomo è l'opera della natura, esiste nella natura, è soggetto alle sue leggi, non può liberarsi da esse, non può nemmeno pensare di sfuggirvi; è inutile che il suo spirito voglia lanciarsi oltre i limiti del mondo visibile, è sempre costretto a ritornarvi,” (Barone d'Holbach, Sistema della natura, I). Inoltre - sia detto si fuggita - il problema non è tanto quello di rinnegare il pensiero “duale”, quanto quello di radicalizzarlo; il dualismo “deve” essere considerato come processo dialettico della sostanza, e ad essa ricondotto. Ora, la differenza tra Kant e Schopenhauer può essere chiarificata attraverso una metafora: per l'uno la terra è rotonda e si può solo circumnavigarla, senza però poterne mai uscire con un movimento orizzontale; per l'altro è possibile un movimento verticale, ma verso l'interno. Perciò l'archè di tutte le cose non va ricercato al di là delle cose, ma dentro di noi. L'individuo non è mai “pura ragione” o “puro soggetto conoscente”, ma è soprattutto corpo. L'individuo ha nel mondo le proprie radici ed è dato “come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime,” (Il mondo come volontà e rappresentazione, Editori Laterza, Libro II, §18, pag. 126). Questa parola, wille, volontà, è la chiave di volta, la soluzione dell'enigma. Bisogna però, in qualche modo, dimenticare l'edificio che veniamo di minare, poiché nella nostra mente, come un pensiero fisso, riaffiora il monito aristotelico: se infatti il mondo oggettivo non esiste in sé, e con esso anche gli individui, oggetti fra oggetti, ne deriva che anch'io sono oggetto, e in sé non ho esistenza (se non come rappresentazione di un altro, quindi relativamente o come nulla); dunque, come facciamo a sapere che questa “volontà interna” a ciascun individuo non sia anch'essa inganno? E che la sua presenza percepita come immediata sia soltanto una sensazione illusoria? In questo caso, il corpo non sarebbe affatto condizione per la conoscenza della mia volontà, ma condizione di una conoscenza ingannevole di tale volontà; e come sarebbe possibile operare un “salto” e ritenere che da questa sensazione ingannevole si possa pervenire addirittura al Wille, alla Volontà in sé? Tuttavia, se noi “sganciamo” la volontà individuale (necessaria per conoscere quella universale), dal sistema contraddittorio schopenhaueriano, e la riportiamo nel “mondo della verità”, vediamo che essa è comunque innegabile. Negarla sarebbe, questo sì, da stolti: è una ταυτολογία, tautologia, una ripetizione di ciò che è immediatamente nota alla consapevolezza. (La sua immediatezza è trattata da S. nel suo scritto: Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, Bur, §43, pag.2 204) Se prendiamo l'episodio chiave della condizione umana, la guerra, possiamo dire con Karl Von Clausewitz che: “La guerra dunque è un atto di forza che ha per iscopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà,” (Della guerra, Arnoldo Mondadori Editore, Libro I, 2, pag. 19). E questo è lo scopo fondamentale: imporre la propria volontà anche nelle dinamiche relazionali, sul piano psicologico, costringendo l'altro a “giocare” (a tal proposito vedi l'opera di Eric Berne: A che gioco giochiamo). Fino ad arrivare al “senso comune” - per quanto sia comune – del detto: volere è potere. “Che la vera essenza interiore dell'uomo sia la volontà risulta anche dal fatto che quando si tratta di valutare un uomo in realtà abbiamo sempre a che fare solo con la volontà. Un buon carattere scusa grandi carenze di intelletto, ma non vale l'opposto;” (A. Schopenhauer, Il primato della volontà, Adelphi, pag. 38). Questa volontà la vediamo operare, indubbiamente, anche nella Natura cosmica dell'infinitamente grande, sia in quella dell'infinitamente piccolo. Rimane comunque che il “salto” dalla “volontà individuale” alla “Volontà in sé” di Schopenhauer è problematico: perché questa sarebbe totalmente irrazionale, un impulso cieco, mentre la volontà individuale non sempre si manifesta in questi termini.


Cerchiamo quindi di comprendere cosa intenda per principio originario il Budda di Danzica. Anzitutto, il Wille come cosa in sé è affatto diversa dal suo fenomeno ed è libera dalle sue forme, ovvero dal principio di ragione - tempo, spazio e causalità (Il mondo, Libro II, §23, pag. 138). In virtù di ciò, ovvero del fatto che sta al di fuori di queste forme, il Wille è senza ragione, “sebbene ogni sua manifestazione sia in tutto sottomessa al principio di ragione; sta fuori da ogni pluralità, sebbene le sue manifestazioni nel tempo e nello spazio siano innumerevoli,” (Ibidem, pag. 139). La Volontà ha il potere di “oggettivarsi” pur rimanendo fuori dalle leggi dell'oggettivazione. In altre parole: è allo stesso tempo libera, ma capace di generarsi come fenomeno (forme, manifestazioni, etc.) pur rimanendo “slegata” dal principio di ragione che determina il fenomeno. È una sorta di “miracolo metafisico”. Mi chiedo però: accettare tale ipotesi, senza alcuna prova che non siano ragionamenti intuitivi, immaginativi, non ha assume carattere squisitamente dommatico, di fede? S. sembra saperla lunga ma poi, all'occorrenza, come vedremo, su alcuni dettagli riguardanti la volontà manifesterà la propria ignoranza. Le prove soltanto argomentative potevano soddisfare l'uomo del passato, ma non soddisfano noi, soprattutto alla luce del metodo scientifico e delle verità acquisite. Non è chiaramente questa la sede per una tale disquisizione, ma ciò rappresenta un problema tragico per la maggior parte dei filosofi e della filosofia (ad eccezion fatta per gli atomisti Democrito Epicuro Lucrezio). È pero evidente che ogni filosofia deve essere passata al vaglio della scienza, ed ogni affermazione passata, presente, e futura, confrontata con le verità scientifiche o confermata da ricerche. Non si pensi però che, in tal modo, la filosofia perda in carattere o autonomia. Il nocciolo della filosofia è l'intuizione; se ne possono avere di grandi (come le ebbero gli atomisti appunto) ed uscirne vittoriosi. Altrimenti si farà discernimento: ciò che risulterà falso cadrà in oblio, ciò che risulterà vero vivrà in eterno.


Ma torniamo a bomba. L'uomo si è persino creduto libero, partendo proprio dalla sua volontà individuale, quasi intuendo che quella volontà fosse lo specchio della Volontà in sé, pienamente libera. Certo, in ogni essere c'è quella scintilla del Wille, ma del Wille divenuto già fenomeno, quindi determinato. Il Wille non è sottoposto al principio di ragione, quindi alla necessità, mentre l'uomo sì, perciò la sua credenza nella libertà è solo illusoria. “Di qui viene il fatto singolare, che ciascuno a priori si ritiene del tutto libero, anche nelle sue singole azioni; e ritiene di poter iniziare ad ogni momento un nuovo indirizzo di vita quasi diventando un altro. Ma a posteriori, attraverso l'esperienza, s'accorge con suo stupore di non essere libero, bensì sottomesso alla necessità;” (Ibidem, pag. 141).


Ad ogni modo, la Volontà, attraverso questo “miracolo” di cui sopra, opera in tutto il mondo fenomenico, manifestantesi, a diversi “gradi” - o meglio, ha “infinite gradazioni”. La Volontà “contrassegna ciò che è essenza di ciascuna cosa nel mondo, ed è unica sostanza di ogni fenomeno,” (Ibidem, pag. 144). Quest'ulteriore ragionamento contorto, ovvero di una cosa in sé che manifesta il mondo, ma rimane affatto diversa da questo, ha comunque un quid di inesplicabile: “non è mai suscettibile d'essere spiegata a pieno;” (Ibidem, §24, pag. 148); affermazione, questa, molto discutibile; sarebbe infatti come dichiarare di aver visto in volto Dio, senza però essere in grado di dire se avesse la barba oppure no. Ma non dobbiamo spaventarci: è Schopenhauer stesso che riconosce l'oscurità di questi pensieri: “deve venirmi largamente in aiuto la meditazione personale del lettore, se non voglio rimaner incompreso o mal compreso,” (Ibidem, pag. 171). Comunque nella sua “obiettivazione” la Volontà sprigiona la sua forza in una quercia così come in mille querce allo stesso modo. Le leggi di natura che si muovono nel fenomeno sono “infallibili” e ciò è quasi terrificante (Ibidem, §26, pag. 159) – in realtà sappiamo che la natura, nella dimensione che io chiamo sub-fenomenica, cioè il mondo quantistico, in alcuni casi, vìola se stessa e le proprie leggi. Ora, la forza primitiva della natura, nella sua essenza, è obiettivazione della Volontà al grado inferiore (Ibidem, pag. 160). Attenzione: qui cerchiamo di evitare il termine “creazione” perché la Volontà di Schopenhauer non è mai causa. Il Wille non crea il fenomeno, ma si manifesta e si oggettivizza come tale: “Imperocché la fisica esige cause, e la volontà non è mai causa. Il suo rapporto col fenomeno non è mai conforme al principio di ragione,” (Ibidem, §27, pag. 166). Tutto ciò che ci circonda, il nostro mondo, è oggettivazione di una unica e identica Volontà e quindi identiche nell'intima essenza (Ibidem, pag. 170).


Insomma, il Wille oggettivizza se stesso senza perciò rimanere “ingabbiato” nel fenomeno; questo fenomeno, però, è tremendo. Dal grado più basso, a quello più alto, tutto è lotta intestina, è guerra. “Questa lotta universale raggiunge la più chiara evidenza nel mondo animale, che ha per proprio nutrimento il mondo vegetale: ed in cui inoltre ogni animale diventa preda e nutrimento d'un altro,” (Ibidem, pag. 173). La guerra totale non ha a che fare soltanto col mondo animale: la Volontà divora se stessa, perennemente, soprattutto nel grado più alto, quello della specie umana. Per questo motivo l'uomo, credendo di essere il centro del mondo, la “bestia trionfante”, ritiene la natura creata per proprio uso. “E nondimeno questa stessa specie umana, come vedremo nel quarto libro, rivela ancora con terribile evidenza in se medesima quella lotta, quel dissidio della volontà; e diventa homo homini lupus,” (Ibidem). Mentre l'ipotesi delle forme a priori della conoscenza portano all'innatismo e alla negazione inconsapevole del processo darwiniano – a meno che non si dica, cadendo nel ridicolo, che, sì, la specie è frutto dell'evoluzione, la quale però addirittura sarebbe voluta, con un “fine”, da un mitologico dio personale, che istillerebbe nella sua creatura forme o idee innate; negando così non solo il racconto biblico della creazione, ma aggiungendo contraddizioni su contraddizioni -; ebbene, qui, abbiamo una articolazione del discorso che può lasciare aperte due interpretazioni: l'una confermerebbe il “fissismo” strutturale in Schopenhauer; l'altro una sorta di “proto-evoluzionismo”. L'uomo non poteva essere, nell'oggettivarsi della Volontà, da solo come fenomeno “isolato”; bensì doveva essere “accompagnato da tutta la scala discendente dei gradi, attraverso le forme animali ed il regno vegetale, fino al regno inorganico,” (Ibidem, §28, pag. 179). La manifestazione è una piramide al cui vertice sta l'uomo. Detta così, il tutto sembra un “già dato”. Ma subito dopo, a partire dal mondo vegetale, v'è una manifestazione mediante “sviluppo nel tempo”; così come l'animale: egli, in quanto tale, è oggettità ad un certo grado della Volontà: tuttavia la sua “forma” non è pienamente compiuta e ha bisogno di svilupparsi nel tempo, modificandosi. Dunque nel mondo fenomenico v'è una sorta di “finalità interna” (pag. 183) che porta a “svilupparsi” in un “generale adattamento alle circostanze” (pag. 185). Ciò sembra accordarsi con l'entusiasmo mostrato da Schopenhauer nei confronti di Carl George Ba°°hr, allorché vide per la prima volta dal vivo un primate: “Mi creda, l'orangutano riconosce nell'uomo il suo parente fraterno più nobile,” (Colloqui, Bur, pag. 173). MA – e il ma è grosso come una casa – nel Libro terzo, al §30, pag. 199 del Mondo, Egli afferma che i gradi (idee Platoniche) sono “le specie determinate, o le originarie, immutabili forme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia inorganici che organici; come anche sono le forze manifestantesi secondo leggi di natura.” Qui si contraddice dunque quello “sviluppo nel tempo”, quel dover modificare la propria imperfezione – perciò, il suo, rimane un proto-evoluzionismo ambiguo; o comunque, anche a prescindere dall'evoluzionismo, resta una ulteriore contraddizione del suo sistema. Ora, l'apparente armonia fenomenica non deve, ancora una volta, trarre in inganno; e il concetto di “finalità” del mondo è solo apparente: nessun fine, ma solo il voler concretare il proprio manifestarsi – in termini darwiniani: il fine è la sopravvivenza. Tutto ciò non “può cancellare l'intimo dissidio sopra esposto, rivelantesi nell'universale lotta di natura, ed alla volontà inerente. Quell'armonia perviene solamente a render possibile l'esistenza del mondo e degli esseri viventi, che senza di lei sarebbero da tempo periti,” (Ibidem, pag. 187). E' evidente che questo passaggio “apre” alla possibilità evoluzionista, sebbene entri però in contraddizione col concetto di forme a priori della conoscenza, le quali, prescindono dall'esperienza. Ma noi quella parte l'abbiamo già dimenticata e perciò possiamo accogliere queste argomentazioni come felici intuizioni da integrare nel nostro sistema. Quindi, la manifestazione del mondo come Volontà ci porta a riconoscere che: se da un lato l'armonia fenomenica è relativa alla sopravvivenza stessa delle specie, a piccole volontà individuali e sociali che cercano di arrancare la esistenza con escamotages; dall'altra “l'intimo dissidio della Volontà obiettivato in tutte quelle idee si rivela invece nell'incessante guerra sterminatrice degli individui appartenenti alle varie specie, e nel perenne lottare delle forze naturali fra loro, come è sopra esposto. Campo e oggetto di questa guerra è la materia, che gli avversari cercano di strapparsi a vicenda;” (Ibidem). A questo punto vorrei suggerire altri due passi a proposito della definizione del Wille, degni di nota: nei Manoscritti berlinesi, 1818-30, Volume III, Adelphi, pag. 259,22, Schopenhauer scrive che “l'anima del mondo è la Volontà.” E aggiungiamo che probabilmente, alla luce di quanto detto sopra, Egli intenda “anima” nella sua significazione latina – ovvero, un principio vitale. Mentre nei Parerga, pag. 119,61, intende la cosa in sé come ciò che propriamente è; e poco dopo (pag. 122,64), l'essere stesso. Infine a pag. 125,66: “la Volontà è in noi e in tutto.” È però arrivata l'ora di rettificare questa realtà della Volontà. Per quanto l'opera di Francesco De Sanctis sia meritoria e immortale, a noi non è concesso di sorvolare sulle contraddizioni problematiche del Wille con semplici battute. Anzitutto, un archè che oggettivizza se stesso come essere determinato dal principio di ragione non può, per miracolo, rimanere contemporaneamente indeterminato; ciò andrebbe provato con argomenti più solidi e non soltanto “affermato”, rimandando la risoluzione del problema alla “meditazione privata” del lettore che, poverino, si trova tra le mani una contradictio in adiecto bell'e buona – la cui risoluzione porta dritti a speculazioni fantasiose. Sarebbe più plausibile affermare – anche alla luce di ciò che verrà trattato in seguito – che: non conosciamo fino in fondo la natura della cosa in sé; o se è determinata o indeterminata. Sappiamo però che la Volontà genera infinite manifestazioni (come Brahman), e che queste manifestazioni (fenomeni), nel macrocosmo, sembrano rispettare leggi “fisse”, ma nel microcosmo (sub-fenomeno) queste leggi hanno solo valore probabilistico. Pertanto, è inverosimile, sul piano logico, che la Volontà non rimanga ingabbiata nel principio di ragione, ma che, manifestandosi, diventi determinata da tale principio. 1. Se è libera, deve manifestarsi altrettanto libera; 2. se non è libera in sé, si manifesterà determinata. E se fosse libera e non libera nello stesso tempo, ma senza una netta separazione tra fenomeno e cosa in sé? Potrebbe questo risolvere il problema della natura dell'archè? Poi, il Wille che non è mai causa, ma si manifesta come mondo soggetto a causalità, risponde alla stessa contraddizione. Infine, una Volontà irrazionale, un impulso cieco, è impossibile che possa manifestarsi in potenza come razionalità, seppur in fenomeni irrilevanti su scala cosmica; certo, la razionalità non domina il mondo – l'umanità deve reagire e produrre leggi, altrimenti la violenza a tutti i livelli prenderebbe il sopravvento -; ma resta il fatto che questa misera razionalità è presente e può essere incrementata (anche se l'esistenza dei preti sembra provare il contrario). Un principio cieco non può contemplare in potenza ciò che non è cieco. Diremo quindi che la Volontà genera, assieme, irrazionalità e razionalità (sebbene questa in misura assai minore). È vero, la realtà è lotta intestina, è guerra, e questo è il lato irrazionale; tuttavia l'aspetto razionale, sia pure ai fini della sopravvivenza, è pur sempre razionale. Che invece la volontà di Schopenhauer si presenti come unica sostanza di ogni fenomeno (e quindi della molteplicità), come anima del mondo, etc; ebbene, questa definizione sembra avvicinarsi a quella senecana e spinoziana. Ma di questo accenneremo nella seconda parte.















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