Appunti per una critica della mentalità giudaico-cristiana in rapporto al pieno riconoscimento dei diritti degli animali
In dispregio alla natura, il cristianesimo ha distaccato l'uomo dal mondo degli animali, a cui egli, sostanzialmente, appartiene, e, dando importanza a lui soltanto, li tiene addirittura in conto di cose. (A. Schopenhauer, O si pensa o si crede, pag. 264, Bur)
Un giorno un prete mi disse: "gli animali non possono né amarti, né essere amati perché non sono persone." La sua visione traboccava non soltanto di specismo ma anche di stupidità e mancanza di senno. Poi scoprimmo che teneva segregati due cani da dieci anni, i quali non avevano mai visto la luce del sole e vivevano nella puzza di escrementi. Specismo significa infatti “attribuzione di un diverso valore o status morale agli esseri umani rispetto alle altre specie animali”; quindi una visione non universale dell'esistenza, ma particolare e interessata al proprio gruppo di appartenenza. Nella sua esasperazione significa - crudeltà verso gli animali.
L'affermazione “io valgo più del cane” è incomprensibile, quasi intollerabile, perché io stesso sono un'animale appartenente alla specie Homo sapiens. Dunque io e il cane abbiamo in comune l'essere-animale, il nocciolo della vita che è - la volontà di vita. Siamo uguali nelle cose fondamentali e la differenza è solo nel “livello di intelligenza, vale a dire dell'attività cerebrale, che, del resto, è notevolmente diverso anche all'interno del mondo animale da specie a specie,” (A. Schopenhauer, O si pensa o si crede, pag. 273, Bur). Quando vediamo un cane è a tutto questo che bisogna pensare, fino ad arrivare alla consapevolezza che è nelle nostre possibilità praticare una morale superiore, un rispetto e una compassione anche nei suoi confronti, augurandoci che la tragedia della necessità e l'egoismo non ci obblighino a fare il contrario.
Tuttavia nella nostra società, sebbene enormi progressi siano stati fatti, questa mentalità incontra ancora molte reticenze, se non addirittura taciute ostilità. Che la mitologia giudaico-cristiana abbia frenato, direttamente o indirettamente, un pieno e totale riconoscimento della dignità dell'animale, è un dato di fatto incontrovertibile che sarà facile dimostrare. Ma non è il solo. Se nell'era primitiva l'uccisione di animali poteva forse essere giustificata, da un certo punto in poi della storia, questa possibilità, ovvero questa giustificazione, venne a mancare; soprattutto dopo l'avvento di Pitagora e del buddismo. Ed è qui che s'innesta la nostra critica.
“Budda, cinquecento anni prima, predicava una dottrina trans-umana e pienamente universale: dunque una compassione, una misericordia, una pietà, un'empatia, non solo verso l'uomo, ma verso tutti gli esseri viventi.”
Arthur Schopenhauer fu'tra i pochi pensatori a scagliarsi contro il contributo negativo che la mitologia giudaico-cristiana ebbe (ed ha) nel favorire una mentalità dove, l'animale, è visto come un mero oggetto su cui esercitare il proprio predominio. Un passo decisivo, infatti, lo troviamo in Genesi, dove Dio, attraverso un ordine iniquo, dice al maschio e alla femmina: “riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra,” (Gn 1,28). Soggiogare l'animale significa anche "possibilità di poter abusare di lui", di poterlo vivisezionare e quindi, perché no, di poterlo modificare nella sua essenza.
Ed è interessante come sia possibile, qui, rintracciare finanche l'illusorio desiderio di poter davvero manipolare la Natura – i cui esiti, disastrosi, sono ancora oggi sotto gli occhi di tutti. L'uomo non crede quindi di essere un “punto” nella natura, un essere tra gli esseri, ma un “apice”, un “eletto” inebriato dalla volontà di potenza. Questa commedia viene però guastata, di tanto in tanto, dalla Natura stessa, quando, attraverso disastri e calamità, spezza quella volontà e rimette l'uomo nell'ordine reale delle cose.
Opinione inoltre diffusa, e accettata per via di una educazione di parte, o solo per ignoranza, è quella che vede, e vuole, la morale cristiana come la più perfetta e la più vera. Senonché quando approcciamo oggettivamente ai testi, scopriamo che la realtà è ben diversa e che tale morale è estremamente difettosa e relativistica. Nell'amore di Cristo gli altri esseri viventi non sono contemplati; soltanto l'uomo è al centro e v'è spazio soltanto per una morale auto-referenziale e di specie – a differenza, come vedremo, di altre altre dottrine.
L'episodio chiave lo troviamo all'inizio del vangelo di Marco. Un lebbroso, in ginocchio, supplicava Gesù di guarirlo. Mosso a “compassione” esaudì il suo desiderio e disse: “Guarda di non dir niente a nessuno, ma va', presentati al sacerdote, e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha ordinato,” (Mc 1,44). E cosa ha ordinato di offrire Mosé? Risposta: i sacrifici animali.
Nel libro del Levitico, al capitolo 14, troviamo infatti le istruzioni volte alla purificazione di un lebbroso: si prenderanno “due uccelli vivi, mondi, legno di cedro, panno scarlatto e issòpo. Il sacerdote ordinerà di immolare uno degli uccelli in un vaso di terracotta con acqua viva. Poi prenderà l'uccello vivo, il legno di cedro, il panno scarlatto e l'issòpo e li immergerà, con l'uccello vivo, nel sangue dell'uccello sgozzato sopra l'acqua viva. Ne aspergerà sette volte colui che deve essere purificato dalla lebbra.”
Ovviamente si spiegherà tutto ciò con il solito argomento consumato della “contestualizzazione”, ammettendo miseramente che Dio, quello ritenuto vero, sia stato anch'egli soggiogato dalle circostanze. Ora, se Pitagora e Budda non fossero mai esistiti, avremmo anche potuto abboccare a questa giustificazione. Ma come è possibile che la rivelazione, su questo punto così fondamentale, abbia una morale che, rispetto ad altre dottrine sorte addirittura centinaia d'anni prima la venuta del "salvatore", risulti così malmessa, relativistica e deludente? Da dove deriva la pretesa di universalità? La verità è che contestualizzando il passo di Marco ciò che emerge è un altro aspetto, che i cristiani della domenica ignorano completamente: Gesù era semplicemente ebreo, un uomo, e quindi “non aveva nulla contro i sacrifici, infatti l'episodio va' interpretato senza considerare la successiva teologia cristiana,” (Mauro Pesce, Inchiesta su Gesù, pag. 34, Mondadori).
“In realtà,” continua Schopenhauer a proposito del cristianesimo, “una sua grande, sostanziale imperfezione sta proprio nel fatto che essa limita le proprie prescrizioni al genere umano, lasciando privo di diritti tutto quanto il mondo degli animali; e perciò, per difenderli dalla massa rozza e insensibile, non di rado peggio che bestiale, la polizia deve prendere il posto della religione, e, siccome ciò non basta, oggi nascono dappertutto, in Europa e in America, delle associazioni per la difesa degli animali,” (O si pensa o si crede, pag. 266, Bur)
Mentre Gesù – qui, a differenza di Marco 1,44, gli episodi che riporterò sono certamente simbolici e tuttavia cruciali per giudicarne lo spessore morale – compie il miracolo della pesca miracolosa, con le reti che si riempiono di pesci e le barche che a momenti affondano (Lc 5), Pitagora, al contrario, cinquecento anni prima di Cristo, i pesci, una volta pescati, li faceva rigettare in acqua. Mentre Gesù permette agli spiriti immondi di entrare in un branco di duemila porci, i quali, poco dopo, si buttano dal burrone nel mare, affogando (Mc 5), Budda, cinquecento anni prima, predicava una dottrina trans-umana e pienamente universale: dunque una compassione, una misericordia, una pietà, un'empatia, non solo verso l'uomo, ma verso tutti gli esseri viventi.
(Da Marco 5 potremmo ricavare anche un principio che sta alla base delle sperimentazioni sugli animali: "puoi infettare o uccidere un'animale, se questo servirà a salvare l'uomo". Per quel prete un simile principio è qualcosa di etereo e sbalorditivo, perché la vita di un essere umano vale molto di più di quello di uno scimpanzé - quindi se infettare di Aids un povero primate porterà alla salvezza di un uomo, perché no? Se per liberare un indemoniato, cioè un pazzo, sacrifichiamo duemila porci, che c'è di male? In verità, si converrà che tale principio non ha nulla di nobile, ma è solo frutto della disperazione e della volontà di voler sopravvivere ad ogni costo.)
“Non ci sono dubbi: è ormai tempo che, in Europa, si ponga fine, almeno per quanto riguarda gli animali, alla concezione ebraica della natura, e che si riconosca, si rispetti e si tuteli l'essenza eterna che vive, come in noi, così anche in tutti gli animali,” (O si pensa o si crede, pag. 271, Bur). È evidente, inoltre, che la scelta vegetariana dovrà in qualche modo essere attentamente e seriamente valutata, o meglio, non potrà che essere una conseguenza logica e dovuta di questo riconoscimento. Ma non è certamente un processo facile, che dall'oggi al domani troverà la sua totale applicazione.
Preconcetti, abitudini, condizionamenti di ogni genere costantemente remano contro e l'ipocrisia generale sembra regnare. Anche chi vi scrive è tormentato interiormente dal problema. Ma la questione potrebbe essere ben più complessa. Infatti se la società diventasse vegetariana potrebbe poi sorgere il problema del sovappopolamento degli animali, il che porterebbe alla necessità di abbatterli o di controllarne le nascite (che è poi quello i inesi già fanno con gli esseri umani). Tuttavia il ventre della massa esige e reclama, si dirà; ma ai singoli spetta l'arduo compito di mettersi in linea con le verità dei saggi: perché, spesso, queste verità noi non vogliamo accoglierle nel profondo del cuore, e, come afferma il divino Seneca, leviter tam magnae rei insistimus: con molta leggerezza insistiamo sulle cose grandi.
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